Se mi chiedete qual è per me il simbolo della bellezza femminile, io non penso alla Venere di Milo o a Sofia Loren. Penso a una bella donna incinta.
C’è qualcosa di potente, di trionfante, di ineguagliabilmente bello in una donna che porta in sé un’altra vita. Una donna deformata da un pancione che chiude un altro essere umano.
Una delle statue che mi commuovono di più è quella preistorica di una donna incinta. Una volta la mostrai a un amico: «Guarda che splendore», e lui rispose: «Vuoi dire che orrore». Finì in una rissa. Sulla maternità mi arrabbio sempre, con poche parole l’ho fatto anche nel piccolo libro quando penso che gli Italiani sono il popolo con la più bassa natalità dell’Occidente. Mi sembra un tradimento, una vigliaccheria verso il proprio Paese, la propria cultura, la propria società, anzi: verso la vita! Avere il privilegio di mettere al mondo un altro essere umano! Lo so che bisogna essere in due per metterlo al mondo: ma il privilegio di tenerlo nel proprio ventre, di nutrirlo col proprio sangue, di custodire la responsabilità della sua venuta al mondo è tutto femminile. È l’unico modo per restare immortali, capisci, mettere al mondo un altro essere umano. Quando hai messo al mondo un altro essere non muori quando muori, perché attraverso quell’essere che è fatto della tua carne e del tuo sangue tu continui a vivere.
Mi pesa, sì, mi pesa non lasciare almeno un figlio, quando morirò. Ed è per questo che ai miei libri mi riferisco sempre con la parola bambini. Il mio bambino, i miei bambini. Ma i miei bambini sono bambini di carta. Non di sangue. E i bambini di carta non partoriscono altri bambini di carta. Sono una ben povera illusione di maternità.